L’assassinio di Samuel Paty, considerato il settimo attentato di matrice islamista che nel 2020 ha colpito la Francia, riapre il dibattito sulle politiche d’integrazione.
In tutta la Francia si stanno organizzando omaggi e manifestazioni in memoria di Samuel Paty, docente di storia, geografia ed educazione civica ucciso venerdì 16 ottobre a Conflans-Sainte-Honorine (Yvelines), a nord di Parigi. Il 7 ottobre, durante una delle sue lezioni, l’insegnante avrebbe mostrato ai suoi alunni la copertina di Charlie Hebdo – pubblicata all’indomani dell’attentato del 7 gennaio 2015 dal titolo “tutto è perdonato” raffigurante Maometto con il cartello “Je suis Charlie” – e la caricatura del Profeta disegnata dalla vignettista Coco nel 2012. Nel tentativo di non turbare gli studenti musulmani, aveva lasciato ai ragazzi la libertà di non prendere parte alla lezione qualora si sentissero a disagio. Ma il suo tentativo di spiegare i valori repubblicani di libertà, uguaglianza e fraternità è stato fraintesi da alcuni genitori, generando durissime proteste. Il padre di una delle sue alunne ha infatti postato video su Youtube e Twitter, diffondendo il nome dell’insegnante e l’indirizzo della scuola, invitando ogni buon musulmano a “dire basta”. L’uomo si è successivamente presentato a scuola, accompagnato dall’Imam radicale Abdelhakim Sefrioui, chiedendo di parlare con il Dirigente scolastico. Ora, il padre della studentessa e l’Imam sono tra le nove persone in custodia cautelare. Il procuratore anti-terrorismo Jean-François Ricard ha inoltre reso noto che la sorellastra dell’uomo sarebbe ricercata per il reato di terrorismo internazionale dal 2014, anno in cui avrebbe raggiunto lo Stato Islamico. I familiari dell’insegnante hanno dichiarato che da diversi giorni Paty aveva reso noti i suoi timori in merito alle minacce di morte e le accuse di razzismo ricevute da membri della comunità di Conflans. Secondo alcuni esperti l’assassino sarebbe stato in qualche modo invitato all’azione da questi appelli diffusi sui social.
L’omicidio è avvenuto per mano del diciottenne ceceno Abdoullakh Abouyedovich Anzorov il quale, dopo aver decapitato la vittima, ne avrebbe postato la foto su Twitter seguita dal messaggio “A Macron, capo degli infedeli, ho giustiziato uno dei tuoi cani infernali che ha osato sminuire Maometto”. L’intervento della polizia ha provocato uno scontro a fuoco durante il quale il killer è rimasto ucciso.
Nato a Mosca nel 2002, Anzorov viveva in Francia con lo status di rifugiato, collezionando alcuni precedenti penali per reati minori, ed aveva da poco ottenuto un permesso di soggiorno di 10 anni. Non era noto ai servizi d’intelligence francese, ma molto vicino agli ambienti radicali islamisti. A seguito delle perquisizioni effettuate in casa sua, nove persone sono state prese in custodia dalla polizia francese, di cui quattro provenienti dalla cerchia familiare dell’attentatore e tre legati al genitore a capo delle proteste contro le azioni del professore. Insieme a loro, sono state interrogate e messe in stato di fermo altre tre persone che risultano essere state vicine ad Anzorov nei giorni prima del delitto, aiutandolo nell'acquisto di una delle armi da lui usate.
Dall’analisi dei social del giovane attentatore emerge una visione salafita intransigente, come la stessa scelta del nome “Al Ansar”, in riferimento ai primi sostenitori di Maometto secondo la tradizione coranica. Ad ottobre aveva inoltre sostituito la sua descrizione di profilo con la frase “apparteniamo ad Allah e a lui ritorneremo”, usata dagli jihadisti che si preparano al martirio. I suoi post trattano quasi esclusivamente temi religiosi, descritti in toni polemici e aggressivi, confermando il quadro di radicalizzazione tratteggiato dall’intelligence francese.
L’attentato, il settimo a sfondo radicale islamista che viene registrato quest’anno nel paese, ha riaperto le profonde ferite francesi sul tema dell’integrazione. Mentre l’Eliseo ed i familiari di Paty preparano un omaggio solenne all’insegnante, Charlie Hebdo sta organizzando una manifestazione in suo onore, che si terrà domenica 25 ottobre in Piazza della Repubblica a Parigi. Di fatto, la radicalizzazione interna alla comunità cecena richiede un’attenzione pari a quella dedicata alle minoranze arabe e mediorientali che si concentrano nelle periferie francesi. Lo stesso presidente Macron, nello scorso febbraio, aveva scelto toni duri nel suo discorso contro il “separatismo islamico” e i rischi legati all’esistenza di queste sacche radicalizzate, annunciando un progetto di legge volto a contrastarne lo sviluppo.
Il tema della radicalizzazione jihadista è strettamente legato a quello dell’integrazione: sebbene sia sempre più complesso per i servizi di intelligence individuare questi lone actors che si radicalizzano da soli o sul web, attivandosi in maniera autonoma, i loro profili presentano elementi caratterizzanti in comune. Generalmente appartenenti alla seconda o terza generazione di migranti, con un’età che varia dai 18 e i 30 anni, questi individui non risultano inseriti in gruppi sociali definiti. Al contrario, si percepiscono rifiutati sia dalla comunità francese – o meglio occidentale – sia da quella islamica dei loro genitori, considerata troppo debole e remissiva. La mancata realizzazione personale, le difficoltà sociali, economiche e familiari spingono questi soggetti verso la ricerca di una nuova identità, uno scopo di vita, un progetto più grande che possa farli sentire parte di una comunità.
È infatti ormai noto che la radice del processo di radicalizzazione non sia da ricercare nelle motivazioni religiose, bensì in quelle sociali e comunitarie. A differenza dell’Italia, paesi come Inghilterra, Francia e Belgio presentano un maggior numero di immigrati musulmani la cui integrazione, anche a causa di scelte urbanistiche del passato, non è stata facilitata nemmeno dal punto di vista logistico. Rilegate prevalentemente nelle periferie, queste comunità tendono a percepirsi come distaccate dal resto della società, rinforzando quei sentimenti anti-occidentali e di odio che costituiscono terreno fertile per la propaganda jihadista. In ambienti sociali estremamente chiusi viene di fatto favorita l’azione di semplificazione dottrinale messa in atto dai reclutatori radicali, sia essa operata in prima persona che attraverso il web. Per tale ragione, il processo di integrazione deve prevedere delle politiche di stampo culturale che si rivolgano direttamente a queste realtà, fornendo alle fasce di popolazione più sensibili (giovani, disoccupati, emarginati etc.) gli strumenti necessari a decifrare in maniera corretta il messaggio jihadista. In particolare, in assenza di dibattito interculturale in queste aree, si rafforza e auto-valida la matrice radicale, rendendo incompleta qualsiasi sforzo di integrazione o di prevenzione e lotta al terrorismo. La religione stessa, ed i valori di cui si fa portatrice, non deve essere vista come parte del problema, bensì come strumento utile per la lotta alla radicalizzazione.
Per secoli la Francia ha privilegiato il modello d’integrazione per assimilazione, contrastando la radicalizzazione jihadista ed il terrorismo di matrice islamica attraverso politiche di irrigidimento dei controlli e delle pene. Questi strumenti si sono dimostrati se non fallimentari, quantomeno non sufficienti per una strategia preventiva adeguata. In mancanza di azioni in grado di stimolare la nascita di una coscienza comune orientata al riconoscimento reciproco è infatti impossibile promuovere queste nuove identità, frutto dell’incontro di più culture. È dunque imprescindibile un cambio di marcia, orientato alla valorizzazione della diversità. È cruciale, a tal proposito privilegiare una narrazione mediatica di questi temi che contribuisca alla produzione di un’immagine veritiera dell’Islam, e non al rafforzamento degli stereotipi legati alla cultura islamica. Al contrario, è sempre più urgente un progetto di integrazione dei valori e dell’etica musulmana, perfettamente coerente con quelli democratici francesi, nel quadro identitario del paese.
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