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Opération Barkhane: la Francia fa un passo indietro

Macron annuncia la fine dell’Operazione Barkhane, ma il Sahel sanguina ancora.



Giovedì 10 giugno, durante una conferenza stampa che ha preceduto il summit del G7, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato la conclusione della missione anti-terrorismo condotta da Parigi nell’area del Sahel, nota come Operazione Barkhane. Macron ha sottolineato come l’impegno francese in Africa Occidentale subirà una “trasformazione”, ridimensionandosi e riposizionandosi in un approccio più internazionale. Ulteriori dettagli sul ritiro ed il futuro delle forze attualmente impiegate sul campo dovrebbero essere resi pubblici negli ultimi giorni di giugno.


Il Sahel (dall’arabo Sahil – confine del deserto) è un’area delimitata a nord dal deserto del Sahara e a sud dalla savana, che ricomprende i territori di Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Ciad, Sudan ed Eritrea. Simbolicamente, questa striscia di terra rappresenta l’African Belt, la zona di confine che separa l’Africa “bianca” dall’Africa “nera”. La sua popolazione è infatti divisa in numerosi gruppi etnici, le cui storiche rivalità sono state accentuate già durante il periodo coloniale francese, e successivamente dalle divisioni territoriali imposte ai nascenti stati africani. La fragile stabilità dell’area, estremamente ampia e scarsamente popolata, si è inoltre prestata alle dinamiche tipiche di organizzazioni criminali e terroristiche che negli ultimi decenni hanno imposto la loro presenza alle popolazioni locali attraverso estorsioni e violenze, sostituendosi di fatto al potere

statale.


I traffici illegali di esseri umani, sigarette di contrabbando, droga, armi e molto altro rappresentano ormai un elemento dominante per l’economia della zona, dove le scarse risorse naturali si sommano ad una crescita demografica esponenziale. Un mercato del lavoro poco recettivo ha inoltre contribuito a spingere le nuove generazioni tra le braccia dei gruppi jihadisti o ad affrontare il difficile percorso di migrazione verso il continente europeo. Inoltre, la debolezza dei governi locali, non avvezzi alle dinamiche democratiche, e la loro ricorrente tendenza a sedare il malcontento popolare con l’impiego delle forze armate, hanno contribuito ad esacerbare i preesistenti conflitti sociali, trasformando l’intera area saheliana in una polveriera.


Quando nel 2011, a seguito del crollo del governo di Gheddafi, gruppi di ex-miliziani tuareg – armati ed addestrati – avevano fatto ritorno in Mali, le storiche rivolte indipendentiste contro il governo ricominciarono. Sotto la bandiera del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad (MLNA), i separatisti tuareg, anche grazie all’appoggio di Al-Qaida e alcune milizie radicali, destituirono il presidente Traoré con un colpo di stato e dichiararono l’indipendenza del nord. Il Mali richiese quindi l’intervento francese, per riconquistare i territori occupati e ristabilire la rule of law.


In risposta, nel gennaio 2013 il presidente francese Francois Hollande lanciò l’Opération Serval, sancendo il definitivo coinvolgimento di Parigi nella crisi del Sahel. La missione, il cui scopo era quello di fermare l’avanzata dei gruppi ribelli e dei terroristi jihadisti, venne sostituita dall’Opération Barkhane dopo circa un anno e mezzo. Hollande voleva infatti ridefinire l’impegno francese riducendo il numero di contingenti presenti nell’area, ma estendendone il raggio d’azione oltre i confini del Mali, fino ai territori di Mauritania, Burkina Faso, Ciad e Niger. Certo di ricevere l’appoggio dell’Unione Europea, le Nazioni Unite ed i paesi del 5G Sahel, Hollande stanziò circa 4.500 unità e numerose basi militari sparse in tutta la regione. Per il quartier generale della missione venne scelta N’Djamena, capitale del Ciad, a testimonianza dell’importanza strategica della partnership con il regime di Idriss Déby Itno, alleato nella lotta ai gruppi armati jihadisti.


L’obiettivo principale dell’Operazione Barkhane era quello di fermare l’avanzata jihadista, tagliandone le risorse: bisognava limitarne il vantaggio logistico fermando gli approvvigionamenti dall’Algeria, ma anche il supporto dei network regionali dal nord del Mali. La Barkhane aveva quindi l’onere di operare in un territorio vasto quanto dieci volte quello francese, su cinque paesi diversi, fornendo addestramento, supporto materiale e finanziario alle forze regolari, implementando le misure di capacity-building e coordinando le operazioni di counter-terrorism nell’area. Interagivano poi con gli operatori di peacekeeping della Mission Multidimensionnelle Intégrée des Nations Unies pour la Stabilisation au Mali (MINUSMA) ed il network regionale degli stati saheliani del 5G Sahel. Con il cambio di presidenza, Parigi aveva prontamente colto l’occasione per ribadire il valore strategico della missione mettendo in luce l’importanza della lotta al terrorismo jihadista e la gestione dei traffici migratori non solo per la repubblica francese, ma per l’intera Unione Europea.


Eppure i risultati dell’impegno francese tardarono ad arrivare. Le difficoltà derivanti da un conflitto asimmetrico tra forze regolari e gruppi terroristici, perfettamente in grado di mimetizzarsi con la popolazione locale, la vastità dell’area da presidiare e le ambiguità del mandato richiedevano infatti un progressivo e dispendioso potenziamento delle forze impiegate, per un costo di circa 600 milioni di euro l’anno. Gli stessi governi locali, sotto l’influenza di costanti giochi di potere, corruzione e interferenze da parte delle élites militari, rappresentano un ulteriore limite per il proseguo degli interventi francesi.


Nonostante l’innegabile contributo nella neutralizzazione di numerosi gruppi jihadisti e il supporto per lo sviluppo delle comunità locali, la Barkhane non è riuscita a sanare le criticità del Sahel, radicate molto più a fondo di quanto si possa pensare. Negli ultimi anni si è infatti registrato un aumento di attacchi da parte di gruppi radicali che prendendo di mira la popolazione locale, gli edifici pubblici e le infrastrutture, hanno contribuito a rendere praticamente inaccessibili i servizi basilari. Le vittime civili sono in costante aumento, così come il numero di profughi e sfollati, in quella che l’UNHCR ha definito una vera e propria emergenza umanitaria.


Anche per i militari francesi, il costo da pagare è stato alto: oltre 50 soldati sono morti dall’inizio dell’Operazione, con conseguente eco mediatico da parte della stampa nazionale. L’intera Operazione è quindi finita sul banco degli imputati, e se da una parte i francesi esponevano il proprio governo a critiche “di pancia”, dall’altro gli esperti sottolineavano i dubbi risultati ottenuti da Parigi nella lotta al terrorismo durante questi anni.


Se già nel febbraio 2021, il presidente Macron aveva espresso l’intenzione di ridurre la presenza francese nella zona, il recente golpe in Mali e la mancanza di garanzie su future libere elezioni hanno inevitabilmente accelerato la decisione. D’altronde la Barkhane non gode di grande popolarità in Francia, e con l’avvicinarsi delle nuove elezioni il suo futuro appariva sempre più chiaro.


Nell’annuncio, Macron ha dichiarato come la Francia non possa “sostituirsi al popolo sovrano, né mettere in sicurezza zone che ricadono nell’anomia perché gli stati decidono di non prendersi le loro responsabilità”. Ora la priorità, secondo Macron, è quella di continuare a favorire il dialogo tra partner africani ed europei, mantenendo un pilastro di anti-terrorismo composto da diverse centinaia di attori delle forze speciali, ed un secondo pilastro, la cooperazione, da rafforzare. La Barkhane verrà quindi sostituita da una nuova operazione militare basata su un’alleanza internazionale, e la Takuba Task Force rappresenterà l’elemento cardine di questa trasformazione.


Di certo la crisi del Sahel è ancora ben lontana dalla sua conclusione, ed i gruppi armati presenti sul campo hanno dato prova di grandi capacità di resilienza, oltre a risorse finanziarie apparentemente illimitate. Nell’ottica di un conflitto sempre più svantaggioso per le forze regolari, la comunità internazionale deve imporsi di ripensare il suo approccio al Sahel.


È cruciale elaborare una strategia politica inclusiva, che non si limiti a dialogare con gli attori statali, ma che valuti anche l’inclusione di quelli non-statali presenti nell’arena. L’attuale strategia, se non prontamente corretta, potrebbe infatti produrre una paralisi dello scenario militare, con ovvie conseguenze su quello umanitario.


In questo contesto, la popolazione locale rappresenta infatti un elemento imprescindibile nella lotta ai gruppi armati para-statali o di stampo fondamentalista, ma spesso trascurato dalle élites politiche internazionali. La priorità deve quindi essere rivolta a strategie di peacebuilding che si modellino sulle specifiche esigenze locali, priorizzando la tutela dei diritti umani e garantendo l’accesso ai servizi basilari.


Eppure i risultati dell’impegno francese tardarono ad arrivare. Le difficoltà derivanti da un conflitto asimmetrico tra forze regolari e gruppi terroristici, perfettamente in grado di mimetizzarsi con la popolazione locale, la vastità dell’area da presidiare e le ambiguità del mandato richiedevano infatti un progressivo e dispendioso potenziamento delle forze impiegate, per un costo di circa 600 milioni di euro l’anno. Gli stessi governi locali, sotto l’influenza di costanti giochi di potere, corruzione e interferenze da parte delle elites militari, rappresentano un ulteriore limite per il proseguo degli interventi francesi.


Nonostante l’innegabile contributo nella neutralizzazione di numerosi gruppi jihadisti e il supporto per lo sviluppo delle comunità locali, la Barkhane non è riuscita a sanare le criticità del Sahel, radicate molto più a fondo di quanto si possa pensare. Negli ultimi anni si è infatti registrato un aumento di attacchi da parte di gruppi radicali che prendendo di mira la popolazione locale, gli edifici pubblici e le infrastrutture, hanno contribuito a rendere praticamente inaccessibili i servizi basilari. Le vittime civili sono in costante aumento, così come il numero di profughi e sfollati, in quella che l’UNHCR ha definito una vera e propria emergenza umanitaria. Anche per i militari francesi, il costo da pagare è stato alto: oltre 50 soldati sono morti dall’inizio dell’Operazione, con conseguente eco mediatico da parte della stampa nazionale. L’intera Operazione è quindi finita sul banco degli imputati, e se da una parte i francesi esponevano il proprio governo a critiche “di pancia”, dall’altro gli esperti sottolineavano i dubbi risultati ottenuti da Parigi nella lotta al terrorismo durante questi anni.


Se già nel febbraio 2021, il presidente Macron aveva espresso l’intenzione di ridurre la presenza francese nella zona, il recente golpe in Mali e la mancanza di garanzie su future libere elezioni hanno inevitabilmente accelerato la decisione. D’altronde la Barkhane non gode di grande popolarità in Francia, e con l’avvicinarsi delle nuove elezioni il suo futuro appariva sempre più chiaro. Nell’annuncio, Macron ha dichiarato come la Francia non possa “sostituirsi al popolo sovrano, né mettere in sicurezza zone che ricadono nell’anomia perché gli stati decidono di non prendersi le loro responsabilità”. Ora la priorità, secondo Macron, è quella di continuare a favorire il dialogo tra partner africani ed europei, mantenendo un pilastro di anti-terrorismo composto da diverse centinai di attori delle forze speciali, ed un secondo pilastro, la cooperazione, da rafforzare. La Barkhane verrà quindi sostituita da una nuova operazione militare basata su un’alleanza internazionale, e la Takuba Task Force rappresenterà l’elemento cardine di questa trasformazione.


Di certo la crisi del Sahel è ancora ben lontana dalla sua conclusione, ed i gruppi armati presenti sul campo hanno dato prova di grandi capacità di resilienza, oltre a risorse finanziarie apparentemente illimitate. Nell’ottica di un conflitto sempre più svantaggioso per le forze regolari, la comunità internazionale deve imporsi di ripensare il suo approccio al Sahel. È cruciale elaborare una strategia politica inclusiva, che non si limiti a dialogare con gli attori statali, ma che valuti anche l’inclusione di quelli non-statali presenti nell’arena. L’attuale strategia, se non prontamente corretta, potrebbe infatti produrre una paralisi dello scenario militare, con ovvie conseguenze su quello umanitario.


In questo contesto, la popolazione locale rappresenta infatti un elemento imprescindibile nella lotta ai gruppi armati para-statali o di stampo fondamentalista, ma spesso trascurato dalle elites politiche internazionali. La priorità deve quindi essere rivolta a strategie di peacebuilding che si modellino sulle specifiche esigenze locali, priorizzando la tutela dei diritti umani e garantendo l’accesso ai servizi basilari.


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