Ad un anno dallo scoppio della pandemia da COVID-19 la crisi migratoria sembra ormai sparita dalle cronache quotidiane. Ma il processo d’integrazione europea non può fermarsi ora.
La crisi dimenticata
A partire dal 2013 l’Europa è stata scenario di un importante flusso migratorio, arrivando a registrare oltre un milione di ingressi nel 2015. Cifre da capogiro, di gran lunga superiori a quelle relative al secondo dopoguerra, che portarono la stampa e l’opinione pubblica a coniare la nota espressione “crisi migratoria europea”. Di fatto, negli ultimi anni gli stati membri che bagnano nel Mediterraneo – Italia, Spagna e Grecia in particolare – hanno dovuto fronteggiare una vera e propria emergenza migratoria, spesso mettendo in evidenza l’inefficienza di politiche migratorie e d’asilo comunitarie.
I numeri registrati nel biennio 2015-2016 si prestarono perfettamente alle strutture retoriche di quelle forze politiche di destra o estrema destra a stampo nazionalista, che descrissero il fenomeno con toni allarmanti ed emergenziali, spesso distorcendo la realtà dei fatti per ampliare il loro consenso politico. La grande risonanza mediatica del tema offriva chiaramente ghiotte occasioni di visibilità e dibattito politico che, lontane dal contribuire alla risoluzione dell’emergenza, hanno solo rallentato l’introduzione di politiche d’accoglienza efficaci e condivise.
Negli anni l’Unione Europea ha tentato di mitigare le negatività relative a questo fenomeno attraverso l’introduzione di una serie di riforme - contenute nel Regolamento di Dublino – e politiche comuni, ma lo scoppio della pandemia da COVID-19 ha interrotto tale processo. Il rischio maggiore, ad oggi, è quello di vedere vanificati gli sforzi compiuti finora sui temi di integrazione e accoglienza. Di certo la priorità assoluta dei governi nazionali resta quella del contrasto all’epidemia, ma nello scenario economico post-Covid il ruolo dei migranti potrebbe non essere così marginale come si potrebbe suppore.
Gli effetti del COVID-19
Secondo i dati presentati nell’OECD International Migration Outlook 2020 la crisi da COVID-19 ha generato delle “conseguenze senza precedenti nei flussi migratori”: è stato infatti registrato un calo del 45% nei permessi di soggiorno emessi nel 2020 dai paesi membri dell’OSCE rispetto al 2019. Chiaramente il calo è imputabile alla scelta di molti governi di chiudere le frontiere nazionali o limitare in generale gli accessi al laro paese, ma lo studio afferma che la pandemia ha impresso modifiche sostanziali alle migrazioni internazionali che potrebbero protrarsi per molto tempo. Tali cambiamenti non si riferiscono semplicemente alla limitazione della mobilità transfrontaliera, ma riguardano più in generale i cambiamenti relativi al mercato del lavoro: la diffusione dell’uso del telelavoro, il calo di richiesta di lavoratori low-skilled, le difficoltà economiche riscontrate in specifici settori (agroalimentare, trasporti, turismo, ristorazione, servizi, etc.) hanno contribuito ad indebolire il potere contrattuale dei migranti, aumentandone la disoccupazione.
Lo studio mette inoltre in luce come questo gruppo sociale sia particolarmente esposto ai rischi sanitari legati al Covid. Sebbene la popolazione straniera nei paesi OSCE sia statisticamente più giovane di quella autoctona, e quindi meno esposta ai rischi della pandemia, le condizioni di vita caratterizzate da un generale svantaggio socio-economico la rendono maggiormente vulnerabile. Si stima che circa il 30% degli immigrati viva in relativa povertà, spesso all’interno di strutture che non garantiscono standard sanitari adeguati, o di coabitazione in contesti estremamente affollati che rendono difficile il rispetto del distanziamento sociale.
È ormai chiaro quanto sia necessario riformulare le dinamiche comunicative dei governi nazionali in merito alla pandemia: esse vanno infatti adattate anche alle esigenze ed alle capacità della popolazione migrante. Un esempio virtuoso arriva dalla Germania, che ha combinato l’uso dei canali ufficiali con la presenza sui social media, dando vita ad una campagna informativa realizzata in diverse lingue, garantendone la fruizione anche gli stranieri. Molti paesi dell’Unione Europea si sono inoltre attivati per facilitare l’accesso ai relativi sistemi sanitari alla comunità migrante, eppure il timore legato alla consapevolezza di irregolarità – propria o di familiari – spesso rende questi individui meno inclini ad usufruire dei servizi sociali, inclusi quelli legati alla sanità.
La chiusura delle scuole, necessaria al contenimento della diffusione del virus, ha invece limitato il processo di integrazione relativo alle seconde generazioni o ai figli di migranti. Tra gli elementi che contribuiscono a incrementare lo svantaggio dei bambini immigrati sono sicuramente da annoverare la scarsità di risorse economiche e l’affollamento che spesso caratterizzano i nuclei abitativi di queste famiglie. Le modalità di didattica a distanza richiedono infatti l’uso di supporti tecnologici e di una connessione internet efficiente, non sempre presenti. Inoltre, la barriera linguistica viene amplificata dall’uso di queste modalità. La mancanza di una pratica quotidiana della lingua del paese ospitante, unita al costante uso di quella natia in contesti domestici, contribuisce al rallentamento dei progressi scolastici e dell’integrazione del bambino nella comunità nazionale.
Impatto su opinione pubblica ed economia
Dallo scoppio della pandemia, l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale si è trasferita quasi integralmente sull’emergenza sanitaria. Il dibattito relativo alle migrazioni sembra essere sparito dalla scena mediatica e politica, persino in Italia. Questo non ha però fermato il diffondersi di episodi filo-razzisti nei confronti dei migranti, spesso accusati di aver velocizzato la diffusione del virus nei territori nazionali a causa dei loro spostamenti. Eppure, il ruolo di questi individui resta funzionale non solo in relazione al contrasto della pandemia, ma anche in un’ottica strategica di risposta socio-economica post-Covid.
La prima ragione di tale legame riguarda la forte presenza di lavoratori migranti in settori sensibili, come quello sanitario o dei servizi, in numerosi paesi europei – ad esempio Belgio, Germania e Regno Unito – caratterizzati da una relazione di dipendenza sia per quanto riguarda profili di tipo high-skilled che low-skilled. Allo scoppiare della pandemia, alcuni paesi membri dell’OSCE, tra cui l’Italia, hanno rilasciato licenze e certificazioni temporanee a medici stranieri per facilitarne l’inserimento lavorativo nel settore sanitario. Belgio, Germania, Irlanda e Lussemburgo hanno invece accelerato le pratiche di riconoscimento dei titoli stranieri relativi alle professioni sanitarie.
Sebbene queste figure continuino a ricoprire un ruolo essenziale per l’economia interna dei paesi ospitanti, a causa della loro natura migratoria sono diventati il perfetto capro espiatorio per le tensioni sociali legate al Covid. Anche la narrativa mediatica e politica non ha sempre mantenuto una linea coerente a riguardo. Le difficoltà economiche già sperimentate da molti potrebbero trasformarsi in un aumento significativo della disoccupazione in numerosi paesi europei, con ovvie conseguenze per i processi di integrazione sia dei migranti economici che dei richiedenti asilo. D’altronde la storia ci insegna che quando l’economia di un paese finisce sotto pressione, le frustrazioni sociali vengono spesso indirizzate verso il fenomeno della migrazione, costruendo nell’immaginario comune una versione esageratamente negativa di queste comunità.
Allo scopo di prevenire una tale eventualità, sarebbe necessario limitare la diffusione di fake news o informazioni distorte in merito alla diffusione del virus. A tal proposito l’ONU ha diffuso delle “note guida” per contrastare la diffusione di hate-speech sia da parte dei media che dei governi nazionali. La Finlandia ha invece realizzato una campagna per l’individuazione di falsi miti relativi al COVID-19 supportata dall’attività di social media influencers. Un’altra iniziativa interessante è quella promossa dal governo francese che ha riconosciuto ufficialmente il contributo dei migranti nel contrasto alla pandemia attraverso la naturalizzazione di coloro che hanno lavorato in prima linea durante il lockdown.
Queste iniziative, di certo encomiabili, andrebbero affiancate a riforme strutturali in grado di garantire l’eliminazione dei problemi legati al tema dell’integrazione. Nella consapevolezza del valore socio-economico del fenomeno delle migrazioni, sarebbe quindi possibile prevedere tali misure all’interno dei programmi di rilancio delle economie nazionali post-Covid, trasformando così la natura drammatica della pandemia in un nuovo inizio.
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